Algoritmi di Fausto Melotti per Belfagor


(Fausto Melotti nel suo studio)
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Belfagor di Sylvano Bussotti


E' all'orecchio sinistro, appunto, che porto impercettibile ma tangibile il segno caratteristico tanto favoleggiato: appuntito lievemente in alto come lo si dipinge ai diavoli, gli angeli caduti a frequentarci per il nostro superiore diletto. Mi dimostra, quell'orecchio, anche una maggiore, piu' squisita e sottile sensibilita' musicale che non il destro, spesso pigro e appannato mentre si poggia e nasconde nel palmo di una mano, sempre destra, quando sorregge il capo stanco e pensoso.
Cosi' e' per via sinistra che l'udito affina e filtra i messaggi sonori dell'ispirazione, principalmente, ed e' a manca la cartilagine sempre desta, all'erta, ritta come un'antenna, perennemente di vedetta nel murmure come tra il frastuono. Filtrare quei messaggi significa, poi, trascorrere dall'organo sensoriale a quello sensitivo; affinarli vuol dire chiarificarne senso e filosofia, dettando all'intelletto, trasmigrando l'ascolto interiore in idea, l'idea traducendo nel suo progetto e scrivendo, infine, segni precisi e magici nei cartigli.
In particolare cinque cartigli da considerarsi men che impronta, ottenuti con la piu' diabolica delle tecniche novecentesche, l'ingrandimento fotografico, partiti dall'antico codice, dal raro reperto di biblioteca; in questi le prime matrici per una inesauribile materia sonora che, conservando intatto il proprio senso allegorico nel fitto mistero di molte ambiguita', esaurisce in pratica, e' al tempo stesso, l'intero repertorio che artigliforme pennini, nervosamente tracciarono a fissarci sul foglio le tiritere del maligno; e per repertorio va intesa una gamma determinata d'intervalli, accenti, durate e movimenti; la trama, insomma, del discorso morale.
Che la musica, nello spettacolo, renda sensibile una morale, neppure il demonio saprebbe negare. Al contrario l'astuzia risiede intera e sovranamente nel dettare quella morale, in vista dei propri fini occulti e inconfessati. Prerogativa superiore d'inferno, la sottile manovra estetizzante coglie il punto nevralgico della nostra sensibilita', lo soggioga, ne spinge il desiderio ad atti estremi, baratta sul tavolo operatorio i cadaveri squisiti della storia in fantasiose autopsie; per ascriverne l'animo basterà assai meno e l'animo del musicista sappiamo quanto abbia da essere tenero.
Belfagor di quale tratto si vorrà rivestire, quale voce sapra' farci ascoltare, con quale movimento scatterà dinanzi a noi, gesto rivoltoso, per pronunciarsi? I fiorentini seppero finemente maritare politica e poesia, nei tempi andati, e Machiavelli in viso gode' di tante di quelle punte aguzze, spigoli e asperità che naturalmente si addice alla sua memoria qualche attività teatrale basata sulla tattica.

(uno dei cartigli di Machiavelli per Belfagor segnato da Sylvano Bussotti)

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Ora la partitura per uno spettacolo dal tema tanto ambizioso dovrà obbedire anzitutto a un tatticismo esasperato e ornarsi di meccanismi fil di ferri e carrucole.
Il fascino ruggine di quell'armamentario caro a Goethe lascia intravvedere anche a noi come il palcoscenico incarni la più compiuta fra le casse di risonanza, dove il passo legnoso, un meccanico scatto, la fissità dipinta o imbellettata e lo straccio sulfureo, spadroneggiano con sicumera sull'irreale.
Alludo a leggi particolari, immanenti allo scriver musica allo stato puro, che piegati per questa musica verso necessita' drammaturgiche, le leggi della scena, rivelano una moltiplicata resistenza al senso, al significato, proponendosi quali accenti dell'indicibile, reali accenti d'attore, senza darcene spiegazione.
Jgor Stravinskij dipingendo il suo proprio diavolo nella Storia del soldato a suon di tamburi (l'organico di questa partitura per Belfagor è disciplinatamente ricalcato su quello del modello stravinskiano), non poteva esimersi dalla scarica legnosa delle bacchette sulla pelle tesa di strumenti dal rumorosissimo richiamo come mastro Geppetto nel dar vita al suo scapestrato figliolo Pinocchio, lo scolpisce nel legno facendone un burattino che la perfidia infantile di Collodi riuscirà a porre sulle cime dello scibile umano.
Stravinskij e Collodi, Machiavelli e Goethe, vociando da dietro ripari arroccatissimi, assordano questo mio udito caprino nella canzonaccia polifonica di una musica tanto impura da imporsi al volgo. Avida, brillante, virtuosa ma per niente Onesta.
Da tutto questo dettato diabolico si puo' trarre la lezione che piu' ci aggrada. Nel novecento con frequenza i piccoli complessi cameristici si sono allontanati dal far musica edonistica e di garbo per accostarsi a scene di teatro, in un cantuccio spesso completamente nascosto dentro uno scatolone, il vecchio altoparlante; fonografo, forma sofisticata di megafono, quali quelli inventati da Cocteau, ad esempio; su su fino ai nostri giorni l'artificio elettroacustico ha fatto scaturire le mostruose potenze sonore che ben conosciamo; tanto è vero che s'e' mutato il diapason e i fanciulli piu' non possiedono l'innocenza della voce bianca.
Lo si deve rammentare poiche' non è difficile scorgere nel presente la magnifica vittoria universale di Belfagor e di tutti i suoi demoni patroni. Veleggiando nell'etere la musica come il Nostro hanno imparato un solfeggio tutto speciale, greve di libertà d'ogni genere. Il musicista può fare solamente attenzione a che non ridegeneri nella licenza, ma la imperiosa provocazione (John Cage) ci ebbe tutti avvisati.
E' cosi' che non mi sarebbe riuscito di nascondere questo mio orecchio sinistro segnato dalla nascita. Captate le mille indiscrezioni, ogni pettegolezzo del machiavellico chiacchierone, dar fiato alle dissonanze o ai salteri più oscuri e' divenuto la regola e l'esercizio per un musicista abituato a percorrere i palcoscenici e tutti quei recessi che li accerchiano. Rimane da prestare la massima attenzione alle triadi, in queste partiture tutte bruciate. Consolandosi, casomai, dell'ermetismo progressivo di questo scritto, certi che l'estremo rigore, la severita', le profezie compongono, con il vizio allegorico, la beaute' du diable.
L'unica bellezza che non s'è mai negata a nessuno.

(Massimo Jose Monaco, in scena nel ruolo di Belfagor)

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La scena è un pentagramma di Massimo José Monaco


Per guardare più lontano è necessario salire sulle spalle dei giganti. Lo sottolineava Newton ed io per realizzare questo Belfagor e spingermi oltre nella mia ricerca, ho chiesto l'aiuto di due giganti. Nella semplice ed efficace magia del Pentagramma è racchiuso il segreto e due grandi maghi me lo hanno rivelato. Fausto Melotti e Sylvano Bussotti. Nello spazio differenziale dei due artisti esiste una relazione che può essere pienamente intesa se si conosce l'abilità musicale di Melotti e la sensibilità visiva di Bussotti.
Fin dai primi incontri con Melotti la parola "scenografia", perse valore per essere sostituita, su sua indicazione, da "spazio" a cui poi si aggiunsero "equilibrio", "intervallo", "musicalità", "armonia".

In questo modo, per me, gli incontri diventarono, lezioni sulla "scultura musicale", una sensazione resa ancora più evidente dall'ambiente che mi ospitava e circondava, sequenze di spazi racchiusi ma non oppressi, dentro linee modulate, gli spazi dell'universo melottiano, le sue opere. Posso dire di essere stato a bottega, allievo di un maestro vigile, attento e dal "... sorriso savio..." come disse Italo Calvino molti anni fa.
Oggi non potrei spiegare come gli elementi scenici di Belfagor abbiano preso vita, forma, ciò che sapevo e sospettavo e' che questo Arcidiavolo, questo Belfagor già si agitava nelle astratte gabbie delle opere di Melotti.
Belfagor non si prende sul serio, anzi arriva al punto di dubitare della propria stessa esistenza: "Esisto ancora?" si chiede.


(I diavoli di Melotti per Belfagor)

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E dubita ancora quando si chiede: "Esistono i peccatori?". L'inesistenza di questi annullerebbe di fatto la sua stessa necessità di essere. E Melotti mi sussurra: "Il dubbio è l'essenza del teatro, Massimo mantieni il dubbio".
Le opere di Melotti vivono di teatralità, sono teatrini, dove con paziente osservazione si può assistere a rappresentazioni sospese del dubbio, frammenti di racconti che portano chissà dove in un viaggio a sorpresa:

"In fondo, laggiù in fondo alla valle
Il treno come un bruco
fugge e scava le sue gallerie.
In un altro paese
diventera' farfalla"
. (da Linee, Adelphi 1981)

Lo spazio e' la chiave
Lo spazio di Belfagor ha questa dimensione, ed e' in questo pentagramma melottiano che si collocano le musiche di Sylvano Bussotti. La musica ha una capacita' evocativa pari alle conoscenze/esperienze riposte nella memoria dell'ascolto di un fraseggio musicale. Puo' rievocare sensazioni o immagini rimaste sepolte dal tempo. Con Bussotti, musicista di squisita teatralita', l'evocazione ha la velocita' della luce e non quella del suono, inizia dall'occhio per arrivare all'orecchio. La musica inizia dalle pagine dello spartito, da quella composizione sceno/grafica che la compone e, nel suo caso, la scompone con segni calligrafici, immagini di note danzanti nello spazio del pentagramma. Diceva giustamente Roland Barthes: "Un manoscritto di Sylvano Bussotti e' gia' un'opera totale". Lo stesso Bussotti ha più volte sostenuto che "la bellezza del foglio è una questione essenziale".

In Belfagor la struttura musicale segue l'intero andamento drammaturgico, base costante e sostenuta, segno per ogni azione e mutamento, una strada percorsa ora strumentalmente, ora vocalmente.


(la nave di Melotti per Belfagor
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Gia', la voce, l'interpretazione vocale ci spaventa. Bussotti quasi se la ride e ci sfida: "Le pagine di ogni spartito nascono congegnate in maniera tanto concretamente legate a me stesso, da rendere spesso impossibile, o inattendibile, l'esecuzione in quei casi in cui non potessi essere presente".
Eppure qui davanti abbiamo due partiture cinquecentesche licantropizzate da Bussotti; sono le musiche originali del canto "De diavoli iscacciati di cielo" di Machiavelli che sotto le mani bussottiane si sono trasformate in cinque ghignanti Cartigli che tentano e dannano la professione e la vita del teatrante...Vedo gli occhi di Melotti ammiccare: "Siamo sempre dei dilettanti. Per essere dei professionisti della vita, una non basta, ce ne vorrebbero due, tre...".



(tutte le foto sono di Aurelio Amendola)